Scommetto che tutti sapete chi sono Bradley Wiggins, Rohan Dennis e Fausto Coppi. E almeno il 30% di voi sa dal record dell'ora di Moser, nell'84. Se siete giovani ne avrete sentito parlare, se siete un po' meno giovani vi ricorderete di quale eco mediatica ebbe a suo tempo. Scommetto, però, che neanche il 15% di voi sa qualcosa di Vittoria Bussi, e che fino a qualche giorno fa la percentuale sarebbe stata molto più bassa. Eppure Vittoria, il 13 settembre, ha fatto proprio quello che hanno fatto anche Coppi, Moser, Wiggins e Dennis: ha conquistato il record dell'ora, ad Aguascalientes, in Messico, percorrendo 48,007 km in un'ora. Nessun servizio al telegiornale, ben poche interviste, al massimo qualche breve trafiletto, almeno fino a qualche giorno fa, quando il Corriere della Sera le ha finalmente dedicato una corposa intervista.
Perché la sua impresa è passata sotto silenzio? Perché è un'impresa al femminile, innanzitutto, e sappiamo bene quanto lo sport in rosa fatichi a trovare un minimo di spazio in questo paese. Perché il ciclismo su pista non se lo fila nessuno, e di conseguenza nessuno si fila gli anni di sacrifici e di fatica di chi si dedica a una disciplina tutt'altro che facile, in un paese dove non ci sono manco i velodromi.
Ok, direte voi, non sarà conosciuta dal grande pubblico, Vittoria, non sarà finita più di tanto sui media, ma avrà pure la sua squadra, i suoi sponsor, sarà un'atleta professionista e ben pagata. Invece no. Primo perché il professionismo, a livello femminile, non è riconosciuto in Italia, secondo perché, come racconta nell'intervista, la squadra se l'è fatta lei insieme al fidanzato, e i possibili sponsor guardano più ai follower su Instagram che ai risultati in pista. Tranne alcuni partner prevalentemente tecnici le spese sono tutte a suo carico: migliaia di euro per il passaporto biologico, altre migliaia per spostarsi ed allenarsi. E qualche sponsor minaccia pure di mollarla, dato che sui social non ha grandi numeri. Nel marketing di oggi vale di più un'influencer che tira fuori le tette, insomma, di qualcuno che sta scrivendo la storia del ciclismo.
Io Vittoria la seguo da un anno, ma l'ho conosciuta solo per caso: me ne ha parlato la mia compagna, Silvia, che è ambassador per LIV, unico marchio 100% dedicato alle donne e tra i pochi sponsor su cui Vittoria può contare. Eppure ci sono tanti altri ragazzi e ragazze come lei, là fuori, che meriterebbero sostegno, che si fanno il mazzo, che hanno storie incredibili da raccontare.
Cosa voglio dire, con questo post, che il mondo è brutto e cattivo, che tutto ciò non è giusto? Bella novità, non mi basta essere così banale. Voglio aggiungere qualcosa al discorso, se no tanto valeva repostare l'articolo del Corriere. Voglio chiedermi: cosa posso fare per dare una spintarella nella giusta direzione, cosa possiamo fare per dare una mano a tutti quegli atleti che come Vittoria fanno grandi cose, ma che restano nell'ombra, cosa possiamo fare per quelli che non hanno i mezzi, e che in questo sistema malato si vedono fregati dal gonzo di turno, che non sa cos'è una guarnitura ma ha comprato 10mila followers?
Per prima cosa seguire Vittoria su Instagram e Facebook, poi cercare altri uomini e donne come lei, che inseguono i sogni e si sbattono per trasformarli in realtà. Ma poi, possiamo non limitarci ad un freddo like, a uno share sulla fiducia. Possiamo approfondire. Possiamo perdere qualche minuto per capire cosa fanno veramente, per incitarli, per interessarci a tutte le storie incredibili che lo sport ci offre, per scegliere un prodotto anche in base alla strategia pubblicitaria che c'è dietro. Usare i social con un po' di testa, un po' di curiosità e di spirito critico, perché in fondo siamo noi il grande mare in cui pescano i brand, il grande pubblico a cui si rivolge il marketing. È un vecchio detto, ma forse ha ancora senso: cambia te stesso, e cambierai il mondo.